La riforma degli istituti tecnici quinquennali

di Valerio Ricciardelli

Una cornice di riferimento concettuale per chi se ne dovrà occupare 

 

  • Per iniziare servirebbe un capitolato
  • La necessità di uno “strabismo” nell’approccio alla riforma
  • Cosa manca per un approccio sistemico alla riforma
  • Quale approccio utilizzare nelle condizioni date
  • Dal bisogno di costruire tecnologia al bisogno di gestire le sue applicazioni
  • I nuovi ambiti applicativi delle tecnologie degli istituti tecnici ad indirizzo tecnologico
  • I saperi generatori dei fattori di competitività da tenere in considerazione
  • La trasversalità della visione sistemica
  • Le specificità territoriali Note sull’autore

 

  • Per iniziare servirebbe un capitolato

La riforma dell’istruzione tecnica quinquennale dovrebbe essere affrontata da coloro che ne hanno il compito, definendo in partenza il suo capitolato, inteso come quadro di riferimento concettuale in base al quale progettare, seguendo un preciso edarticolato processo logico, le linee di intervento. Tale approccio, da me più volte richiamato anche nei numerosi scritti su riviste specializzate, per chi volesse approfondirlo più nel dettaglio, è puntualmente descritto nel mio recente saggio dal titolo:“Ricostruire l’istruzione tecnica – Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare” (ed. guerini Next), pubblicato ad aprile 2024, nel quale auspicavo altresì la redazione di un “libro bianco” sull’istruzione tecnica, prodromico a un ripensamento complessivo di questo fondamentale settore educativo e formativo funzionale alla crescita economica, sociale e culturale del Paese.

Le considerazioni che seguono, pertanto, vogliono essere un contributo di pensiero per dotare di una visione sistemica l’interventoriformatore e proiettarlo in una prospettiva non di breve ma di medio lungo periodo, che renda l’offerta formativa promossa dall’istruzione tecnica quinquennale realmente attrattiva in primis per i nostri studenti e le loro famiglie, ma anche per coloro chedopo gli studi universitari intendano cimentarsi con l’insegnamento delle sue discipline.

In quest’ottica, il primo passo da compiere è, a mio avviso, la definizione di quella che possiamo chiamare metaforicamente la struttura architetturale dell’offerta formativa, entro cui incardinare tutti gli elementi principali che la compongono, mi riferisco in particolare alle discipline da insegnare ed apprendere, il loro dosaggio nell’erogazione e tutta la strumentazione didattica che a tali fini occorre, quella che nel linguaggio tecnico è denominata teachware, per arrivare fino al processo di valutazione e di validazione degli apprendimenti, senza trascurare, infine, l’editoria scolastica di settore, sulla quale la necessità di una seria riflessione è quanto mai impellente.

Per definire quali saperi dovrebbero essere appresi, nella loro dimensione sia teorica che pratica, ma anche comportamentale e in quali ambiti della vita personale e professionale gli stessi si devono applicare, occorrerebbe legare, con una “grammatica” appropriata, la conoscenza del sistema economico e sociale del Paese, modellizzandone le diverse componenti e le architetture deicorrelati sistemi di istruzione e formazione. Vi è, infatti, una stretta connessione e interdipendenza tra i diversi saperi di cui sopra, le competenze dagli stessi conseguenti, i profili professionali che ne scaturirebbero e, infine, le prestazioni che in base a questi ultimi dovrebbero essere prodotte. Si tratta di aspetti cruciali che bisognerebbe avere ben chiari perché spesso tali ambiti vengonoconfusi tra loro, anche terminologicamente, ignorando invece che i saperi, le competenze, i profili professionali e le prestazioni costituiscono nel loro insieme la cultura industriale di un sistema.

 

  •  La necessità di uno “strabismo” nell’approccio alla riforma

Ricorrendo anche in questo caso a una metafora, un approccio alla riforma che poggi preliminarmente su questa visione sistemicadelle tante dimensioni di cui tenere conto richiederebbe però da parte dei responsabili dell’azione un grande “strabismo”.

Cerco di spiegare ciò che voglio intendere con tale metafora. Gli occhi dei riformatori dovrebbero contestualmente rivolgere lo sguardo verso due dimensioni distinte. L’uno dovrebbe guardare in modo trasversale al sistema economico e sociale di riferimento, così come modellizzato nei suoi differenti ambiti, ma anche cercare di vederlo nei suoi orizzonti più ampi e operativi. L’altroocchio, invece, dovrebbe guardare i singoli indirizzi dell’istruzione tecnica in modo verticale, individuando e ricomponendo per ogniuno di essi l’elenco dei saperi che vi afferiscono, i contenuti delle rispettive discipline, il loro dosaggio e i profili di propedeuticità, ossia tutte quelle dimensioni che consentiranno di acquisire nei contesti più appropriati le competenze necessarie per la costruzione dei profili professionali e la generazione delle prestazioni richieste. In questo si traduce la visione sistemica di cui scrivo.

La parte più importante della seconda dimensione dovrebbe essere proprio il dosaggio dei contenuti delle discipline con laprofondità dei loro saperi, in quanto è da esso che si dipanano le competenze da acquisire, le quali a loro volta generano leprestazioni richieste dai diversi profili professionali. Questo rapporto di

funzionalità serve a identificare e articolare i quadri orari delle discipline da apprendere, nonché il modello organizzativo con cui la scuola eroga la sua offerta formativa.

Ma quanto finora trattato è solo una parte del processo di ricostruzione dell’istruzione tecnica quale volano indispensabile per affrontare le sfide presenti e future, nell’ottica di sviluppare crescita economica, buona occupazione, benessere sociale e culturale del Paese.

 

  • Cosa manca per un approccio sistemico alla riforma

Difatti, il quadro di riferimento entro cui dovrebbe svilupparsi una riforma credibile dell’istruzione tecnica, oggi manca di alcune condizioni di sistema fondamentali.

Anzitutto, occorrerebbe che l’Italia, che è ancora la seconda manifattura in Europa, si dotasse, al pari di altri Paesi che competono a livello mondiale, di un piano industriale di medio e lungo periodo come base di una politica economica che tenesse conto, in modo integrato, di tutte le necessità e, dunque, anche di quelle connesse al mercato del lavoro, come l’employability e lasostenibilità del nostro welfare. Un piano industriale che, come sottolineato di recente in uno studio del CNEL sulla competitività del Paese, diverrebbe anche lo strumento basilare per orientare le politiche scolastiche, in particolare la riforma dell’istruzione tecnica quinquennale. Ad esso, infatti, avrebbe dovuto riferirsi il capitolato, di cui si è detto, per indirizzare in modo adeguato la riforma, esplicitandone chiaramente visione e obiettivi strategici, per rendere le professioni tecniche e le istituzioni formative adesse dedicate fortemente attrattive, anche ai fini di una corretta ed efficace comunicazione a tutti i portatori di interessi di tale offerta di istruzione.

Ecco perché, per supplire anche all’assenza del piano industriale nazionale, sostengo che sarebbe ancora più attuale l’opportunitàdi redigere un “libro bianco” sull’istruzione tecnica, eventualmente preceduto da un “libro verde” che, raccogliendo e assemblando opportunamente i contributi di pensiero di tutti gli stakeholder, potrebbe sfociare nella formulazione di una prima proposta iniziale.

 

  •  Quale approccio utilizzare nelle condizioni date

In condizioni ottimali, ovvero in presenza di un piano industriale nazionale chiaro che tracci la prospettiva di sviluppo dell’Italia per i prossimi anni nel contesto di un economia globalizzata, una significativa e auspicata riforma degli istituti tecnici quinquennali dovrebbe essere ispirata dall’idea di una coraggiosa, seppure complessa, rivoluzione copernicana e la scelta su come realizzarla, tra le diverse opzioni possibili, dovrebbe ricadere sull’approccio top-down che consentirebbe anche di eliminare una serie di vincoli inutili. Ma tale soluzione richiederebbe a monte l’utilizzo di quello strumento di ampia partecipazione pubblica da me più volte suggerito, ossia gli Stati Generali dell’istruzione tecnica per acquisire il punto di vista di tutti gli attori coinvolti.

Tuttavia, preso atto dell’assenza del suddetto piano industriale e rimanendo comunque necessario l’intervento riformatore, nellasituazione data l’unica strada praticabile, a mio avviso, è quella opposta, ossia dell’approccio bottom up che partendo dal basso e muovendosi tra i vincoli di sistema imposti dalle varie contingenze, individui e metta a valore le best practices esistenti.

La riforma degli istituti tecnici quinquennali, che a questo punto dovrebbe riguardare prevalentemente l’aggiornamento dei contenuti curricolari attuali, dovrebbe concentrarsi, se si considerano le necessità della nostra economia industriale, in primis su quelli ad indirizzo tecnologico, che attualmente rappresentano il settore formativo più rispondente alla domanda di profili professionali da parte delle imprese.

 

  •  Dal bisogno di costruire tecnologia al bisogno di gestire le sue applicazioni

Per impostare correttamente gli interventi di riordino dell’istruzione tecnica di cui trattasi, è necessario anzitutto conoscere approfonditamente il settore industriale di riferimento e le trasformazioni che ne hanno caratterizzato lo sviluppo nel corso del tempo.

Il concetto di fondo da cui partire è la fondamentale distinzione tra tecnologia e applicazione della stessa nei diversi ambiti industriali.

Cinquanta, sessanta anni fa, la nostra economia industriale, prevalentemente composta da aziende di grandi dimensioni, aveva bisogno di “creare” (produrre) tecnologia nei diversi ambiti in cui, secondo la tradizionale suddivisione verticale, si articolava il settore di riferimento: elettronica, elettrotecnica, meccanica, chimica e, successivamente, informatica, telecomunicazioni, meccatronica o in altri termini automazione industriale.

Di conseguenza, per esemplificare, l’obiettivo formativo prioritario per un istituto tecnico ad indirizzo elettronica, era di consentire agli studenti di apprendere i fondamenti teorici della disciplina e si sapere utilizzare le varie circuiterie applicative derivate dall’avvento continuo di nuova componentistica.

Lo scopo era acquisire dimestichezza con tali circuiterie per sapere poi costruire nuove apparecchiature elettroniche per altrettantenuove applicazioni. In altri termini, conoscere la tecnologia di base per continuare a costruire nuova tecnologia applicata e questa impostazione, naturalmente, valeva anche per tutti gli altri indirizzi tecnologici.

Non vi era traccia nei piani di studio di insegnamenti che avessero come obiettivo l’apprendimento della cultura e l’acquisizione dicompetenze relative alla gestione industriale complessiva, tematiche che esulavano dallo studio della tecnologia in senso proprio, e questo valeva tanto per la scuola che per l’università.

Di queste discipline, invece, se ne occupavano gli enti di formazione che facevano capo ai grandi gruppi industriali e negli stessi incardinati, che già allora supplivano alla carenza di formazione, e quindi all’inadeguatezza, delle scuole tecniche.

La gestione industriale, ossia l’insieme delle discipline organizzative, tecniche ed economiche che dovevano necessariamente integrare le conoscenze tecnologiche, erano, difatti, appannaggio di scuole aziendali come l’ISVOR Fiat, l’Elea Olivetti, l’Ancifap del gruppo IRI, l’Istituto Piero Pirelli ed altri.

Dismessa la grande industria e venuti meno di conseguenza anche gli enti di formazione di cui sopra, che supplivano alle carenze di contenuti dell’istruzione tecnica scolastica, i nuovi sistemi industriali che si sono succeduti non sono stati in grado di costruire soluzioni alternative, per cui la distanza tra domanda di saperi e di competenze dell’economia industriale e la capacità di formarleda parte degli istituti tecnici quinquennali si è inevitabilmente e continuamente ampliata, raggiungendo l’attuale significativo gap.

Infatti, la riduzione della grande industria e la sua quasi totale sostituzione con un sistema basato sulle piccole e medie imprese, si è inevitabilmente tradotta in una rilevante fragilità del nostro apparato industriale, sono entrati in sofferenza sia i loro fattori produttivi sia la loro capacità di innovazione, determinando l’attuale posizionamento delle stesse nelle catene di approvvigionamento di grandi driver industriali non nazionali.

Tale processo di trasformazione del sistema industriale e le conseguenze che si sono generate sono ben evidenziate nell’analisi, già citata, condotta dal CNEL nel suo ultimo rapporto sulla Produttività 2025.

Nel frattempo, la cultura della nuova gestione industriale, nell’ottica allargata della supply chain globale e le nuove competenze e professioni tecniche che le stesse hanno generato è ben conosciuta e rappresentata dalle società della conoscenza, che hannosostituito le scuole aziendali divenendo un asset strategico dell’economia industriale del Paese, le quali, a mio avviso, dovrebbero essere oggi, insieme alle scuole e alle imprese, un interlocutore essenziale per dare corpo e contenuti alla riforma dell’istruzione tecnica quinquennale.

L’odierno nostro sistema industriale, allora, non ha più la necessità di costruire tanta tecnologia come nel passato, ma ha bisogno disapere usare e applicare tutte le innovazioni tecnologiche che per varie ragioni sono costruite da altri. Dunque, le esigenze deidecenni passati, sulle quali sono rimasti ancorati i nostri programmi didattici, nonostante le varie riforme che seppure in modo parziale sono nel tempo avvenute, non sono più attuali e di questo occorre tenere conto nel processo di ricostruzione dell’istruzione tecnica quinquennale.

 

  • I nuovi ambiti applicativi delle tecnologie degli istituti tecnici ad indirizzo tecnologico

Oggi, gli istituti tecnici ad indirizzo tecnologico dovrebbero in gran parte occuparsi dei nuovi bisogni di saperi, che, come ho scritto sopra, non sono soltanto incentrati sulla conoscenza della tecnologia, ma si devono estendere anche agli ambiti organizzativi e lavorativi in cui le nuove tecnologie vengono applicate.

E proprio da questi ambiti organizzativi e lavorativi derivano le professioni tecniche odierne e quelle del futuro, è dalla nuova culturaindustriale che si deducono i bisogni di saperi e di competenze che sono poi funzionali a produrre le prestazioni attese, nelle forme competitive di cui l’economia complessiva del Paese da tempo è carente.

È, allora, molto importante conoscere questo flusso, che rappresenta la complessiva catena del valore di tutto il sistema economico di riferimento.

C’è quindi da chiedersi, a beneficio dei riformatori degli istituti tecnici quinquennali, quali potrebbero essere, al netto di quelli che si occupano ancora marginalmente della “costruzione” della tecnologia, gli ambiti organizzativi e lavorativi dove sono applicate le nuove tecnologie.

Limitatamente agli istituti tecnici ad indirizzo tecnologico, se ne potrebbero individuare almeno sette:

  1. la progettazione di macchinari e di sistemi industriali a varie complessità, in gergo definiti “beni industriali” o “machinery industriale”;
  2. la costruzione, produzione o assemblaggio di macchinari e impianti che usano le tecnologie;
  3. complementare al secondo, le applicazioni dei sistemi che utilizzano le tecnologie;
  4. la vendita e il post-vendita dei beni industriali, compresa la componentistica, che usano le tecnologie, con il “commissioning engineering”;
  5. la gestione dei processi industriali che usano le tecnologie;
  6. la loro manutenzione con le più diversificate politiche manutentive;
  7. la complessiva supply

I primi quattro ambiti definiscono l’ambiente o il settore del c.d. “machinery industriale”, ossia l’insieme di macchine, sistemi e sottosistemi di impiantistica industriale, con la loro componentistica intelligente e non, che rappresentano nel loro insieme la parte predominante dell’export industriale del made in Italy, dove il fattore competitivo principale da sostenere e ampliare, anche attraverso una buona istruzione tecnica, è la capacità di innovazione e l’espansione dell’esportazione dei beni industriali in nuovi mercati.

La rilevanza strategica di questo settore per la nostra manifattura, mi permetto per inciso di sottolineare, dovrebbe suggerire unavalutazione circa l’opportunità di inserire, in seno alla riforma, uno specifico indirizzo tecnologico, istituendo l’istituto tecnico per il machinery del made in Italy, eventualmente anche attraverso una curvatura e adeguamento dell’attuale indirizzo meccatronico.

Gli ultime tre ambiti attengono invece al funzionamento dei processi produttivi, manutentivi e di supply chain e riguardano la cosiddetta gestione industriale e supply chain, applicata in questo caso non ai costruttori di machinery industriale, spesso detti anche OEM (“Original Equipment Manufacturer”), ma agli utilizzatori finali del machinery, definiti e classificati come end userdelle tecnologie, e che prevalentemente costituiscono la media e grande impresa produttiva di tutti i settori industriali.

 

  • -I saperi generatori dei fattori di competitività da tenere in considerazione

Nell’individuazione dei nuovi saperi occorrerebbe tenere conto anche dei principali fattori che conferiscono competitività alleimprese industriali, perché accanto alla capacità di “saper fare” innovazione vi è anche quella di “sapere incrementare” la prestazionedei loro fattori di produttività. Ciò richiede un presupposto di contenuti teorici che deve trovare spazio, con un giusto dosaggio, nelladistribuzione dei programmi disciplinari. Non si dimentichi, infatti, che nella nostra economia industriale il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), che è il primo indicatore di salute dell’economia, è molto elevato e quindi non competitivo rispetto ad altre economie industriali con le quali ci confrontiamo, ed è pertanto generativo dei nostri bassi salari, con una forte penalizzazione dei fattori di employability dei nostri giovani.

Novembre 2025

 

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